Miti e leggende

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La città di Is

La città bretone di Is, racconta una leggenda, era costruita sotto il livello del mare ed era protetta da alcune dighe le cui chiuse venivano aperte, di tanto in tanto, per permettere il ricambio e il flusso delle acque. Il re di Is si chiamava Grallon ed era padre della bellissima principessa Dahut, che portava sempre, appese al collo, le preziose chiavi delle chiuse.


La principessa era anche una potente maga ed aveva abbellito la città con opere d'arte che nessuna mano umana sarebbe mai stata in grado di fare, ma il suo cuore era vizioso e ricercava soltanto il divertimento e il piacere.
In quella città gli abitanti erano tanto ricchi da usare soltanto utensili d'oro e d'argento, ma la ricchezza li aveva corrotti e resi cattivi e ingrati. I mendicanti erano stati cacciati dalla città e tutti si erano dimenticati di Dio, tanto che l'unica chiesa era stata talmente trascurata da essersi perduta la chiave del suo portone. Tutti pensavano soltanto a divertirsi e passavano il tempo nei locali di spettacolo, tra vino e peccato, senza pensare minimamente a salvare la propria anima.
Dahut era la peggiore tra loro e giorno e notte organizzava meravigliose feste che attiravano molta gente che lei sapeva sempre stupire. Quando si innamorava di un bel giovane, gli donava una maschera magica che gli avrebbe permesso di raggiungerla, segretamente, in una torre che si innalzava accanto alle chiuse. Ma il giorno dopo, quando lui avrebbe voluto allontanarsi, la maschera prendeva vita: si stringeva e lo strangolava. Un servitore, allora, raccoglieva il cadavere e lo andava a gettare sul fondo di un precipizio che si trova tra Huelgoat e Poullauen. Una notte, uno straniero entrò nella sala del palazzo di Dahut mentre era in corso una festa. Era accompagnato da un piccolo suonatore che suonò un passe-pied talmente indiavolato e così potente che nessuno riuscì a sottrarsi al desiderio di ballare e Dahut e i suoi amici si misero a danzare come le fiamme di un fuoco. Lo sconosciuto avvicinò la sua mano al collo della principessa che vorticava persa nella danza, si impadronì delle chiavi delle chiuse e fuggì.


Intanto san Guénolé (o san Corentin) era andato dal re Grallon, che viveva isolato nel suo castello, per dirgli che la misura era colma e che era prossimo il castigo per gli abitanti di una città tanto dissoluta: "Sire, è necessario che la città sia punita. Andiamocene o anche noi saremo coinvolti in quello che succederà".
Il re prese con sé quanto aveva di più caro e prezioso, montò sul suo cavallo nero e seguì il santo. Nel passare davanti alla diga, i due videro lo straniero che si tramutava in Demonio e che usava le chiavi della principessa per aprire tutte le chiuse delle dighe. Il mare cominciò a riversarsi in tumultuose cascate sulla città.
Il santo urlò a Grallon di fuggire e questi lanciò verso la spiaggia il suo cavallo. Galoppò per le strade inseguito dalle onde rombanti, con le zampe posteriori già immerse nell'acqua.


Dahut vide il padre e, terrorizzata, urlò perché lui la salvasse. Il re fermò il cavallo e l'acqua salì sino alle ginocchia del re; egli chiamò in proprio aiuto il santo che gli consigliò di abbandonare la figlia, ma Grallon esitava, così il santo toccò con il suo pastorale di vescovo la spalla della principessa, che scivolò nel mare e scomparve. Il cavallo riprese la sua corsa e raggiunse lo scoglio di Garrec dove si vede ancora l'orma dei suoi zoccoli.


Grallon si inginocchiò per ringraziare Dio; quando sollevò il viso e si volse verso la sua bella città, non vide che una distesa d'acqua oscura e profonda, sulla cui calma superficie si specchiava la luce delle stelle.

Quello di Is è un mito strettamente legato all'isola di Hy-Brazil, che si dice sprofondi e appaia, di tanto in tanto sotto alle onde dell'Irlanda. Il mito non è pura invenzione, perché un tempo vi erano numerose isole in quel tratto di mare, fino alla Francia.

Ancora una reminiscenza della perduta Atlantide?

A proposito della leggenda della città di Is, è interessante il richiamo che ne fa la scrittrice inglese, Antonia Byatt, nel suo romanzo "Possessione", uscito nel 1990, a rappresentare il conflitto culturale tra due tipi di civiltà, il patriarcato indoeuropeo di Grallond e il paganesimo più primitivo e istintivo della strega sua figlia , Dahut, che viene sommersa mentre lui riesce a salvarsi. Il mondo femminile della città subacquea è l'opposto del mondo industriale, tecnologico e dominato dal maschio. Quando quest'ultimo sarà distrutto, allora riemergerà il primo.

 

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La leggenda dell'invisibile città di Kitezh

 

Sulle sponde del lago di Svetloyar, 600 Km a est di Mosca, un gruppo di scienziati russi sta cercando la mitica città di Kitezh, sommersa dalle acque nel XIII° secolo. Di Kitezh, come dell’Avalon di Artù, si è persa ogni traccia. La leggenda narra che la città sarebbe sprofondata nel lago per sottrarsi all’invasione tartara del 1237 e sarebbe rimasta invisibile sino alla fine dei tempi.

(La Repubblica 27.7.2003)

Sulle rive del lago Svetlojar dove, secondo la tradizione, era situata la città miracolosa, convenivano folle di devoti in preghiera. Essi speravano, con l’aiuto di Dio, di poter scorgere il riflesso di Kitezh nelle limpide acque del lago o di poter sentire il suono delle sue campane. Si diceva che taluni avrebbero addirittura soggiornato nella città invisibile. Circolavano lettere spedite da Kitezh da persone che si sarebbero introdotte in questo regno recondito. Il viaggio verso l’invisibile Kitezh, che Dio stesso aveva nascosto, era soggetto a severi obblighi e condizioni. Il pellegrino doveva giurare di essere pronto a sacrificare la vita, a morire di fame e affrontare altre prove per vedere questa città santa. Doveva anche intraprendere il viaggio nel più grande segreto: non doveva rivelare il suo proposito ad anima viva, neppure al padre, ai fratelli o alle sorelle. Se divulgava il segreto, non solo non avrebbe mai visto Kitezh, ma avrebbe subito il severo castigo di Dio.

Ancora oggi molti credono, che a volte, col bel tempo, sia possibile sentire il suono delle campane e vedere riflesse sulla superficie del lago le cupole dell'oro della chiesa.

La storia di Kitezh sopravvive nell'opera del compositore russo Rimsky-Korsakov (1844-1908) che nel 1907 compose "La  leggenda dell'invisibile città di Kitezh e della vergine Fevronija".

 

La storia si svolge nel tredicesimo secolo, probabilmente il più terribile nell'intera storia russa, quando la Russia fu invasa da orde di Tartari. La resistenza eroica della gente agli invasori è lo sfondo dell'opera del Rimsky-Korsakov. La leggenda ha per protagonista una ragazza di nome Fevronia, emblema di tutto ciò che è giusto, naturale, saggio, leale.

Nata nei boschi, la ragazza è circondata dalla Natura ed è lei stessa parte di questo ambiente naturale sempre presente. Fatta prigioniera dai Tartari, Fevronia rifiuta, persino sotto tortura, di mostrare al nemico la strada che conduce alla città capitale di Kitezh.

Dopo 10 giorni e 10 notti di ricerche infine i Tartari raggiungono il lago sulle cui rive ritengono che si trovi la città. Ma la città non c’è più.

Tutto ciò che i Tartari poterono vedere furono i riflessi delle cupole della chiesa ed i suoni smorzati di campane che sembravano rintoccare in qualche luogo in profondità sotto le onde. La città era scomparsa, ma questo fu l’unico modo che le rese possibile sopravvivere alla distruzione. Fevronia fu l'unica anima vivente che riuscì in qualche modo a restare là e a far sapere alla propria gente che la città di Kitezh era viva, ma si nascondeva agli occhi dei nemici.

 

Quasi ogni compositore, produttore o pittore ha una composizione, un libro o una tela per la quale si è preparato per una vita intera e che completamente riflette i suoi principi estetici.

La leggenda della città invisibile di Kitezh fu per Rimsky-Korsakov quello che fu il Faust per Goethe, la Cappella Sistina per Raffaello, la Nona Sinfonia per Beethoven, Guerra e Pace per Tolstoy.

L’idea di un’opera dedicata alla leggenda della città di Kitez, sommersa dalle acque del lago Svetloyar e così salvata dal dominio tartaro, che attirava Rimskij-Korsakov da tempo, fu realizzata anche grazie alla preziosa collaborazione del librettista Vladimir Bel’skij, grande conoscitore dell’antica letteratura russa, in cui convivono tracce di mitologia slava precristiana (gli uccelli profetici Sirin e Alkonost), elementi della fede ortodossa di acquisizione (988 d.C.) relativamente recente (il miracoloso affondamento della città e lo spontaneo suono delle campane delle chiese), episodi di storia nazionale con chiara intonazione patriottica (l’eroica resistenza della popolazione contro l’invasione tartara iniziata nel 1223 e di cui questo è uno dei primi episodi). Fevronija, la protagonista, simbolo del coraggio e della fermezza femminile, certamente raccoglie le tre componenti: in lei risuona il tema panteistico della natura come Chiesa universale, dove tutto vive e tutto celebra l’esistenza di Dio, il tema ortodosso dell’accettazione della volontà divina anche nelle avversità e quello patriottico della fedeltà alla propria città e al proprio popolo.

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La leggenda di Melusina

 Melusina è la protagonista di delicate e suggestive leggende medievali e romantiche: donna-pesce bellissima che consola e inganna, guida alla giusta scelta e innamora di sé, appare e scompare dalle profondità dei laghi nelle foreste incantate, mostro soprannaturale e donna splendida, amorevole e abile, essere crudele, ma anche una sorta di dea dell’abbondanza che costruisce palazzi e colma i campi di frumento.

Esistono diverse versioni della leggenda di Melusina, che si inserisce nella tradizione medioevale dell’incontro tra fate e umani, ma la codifica definitiva si ha intorno al 1400, per  volontà di due nobili famiglie, entrambe lontane eredi dei Lusingano (antica casata francese distintasi già intorno al X° secolo), che vogliono dar lustro al proprio nome fornendo alla propria stirpe un’antenata mitica.

Intorno al 1390 il duca di Berry, erede dei castello dei Lusignano, chiede allo scrittore Jean d'Arras di stendere un romanzo che ricordi l'origine per così dire "soprannaturale " della stirpe di cui egli è erede. L'opera vedrà la luce nel 1392 e porterà il titolo di Roman de Mélusine.

Pochi anni dopo a Partenay, non lontano da Lusignano, il signore del luogo ‑ anch'egli discendente dei Lusignano ‑ incarica il suo cappellano Couldrette di redigere un'opera in versi sullo stesso tema.

 

Il protagonista, Raimondino, mentre è a caccia nella foresta di Colombiers, uccide per errore suo zio. Sconvolto dall'accaduto si rifugia in un bosco e presso una fonte si imbatte in tre fanciulle. Una di queste, rispondente al nome di Melusina, gli rivela di essere al corrente dell'incidente occorsogli e di poterlo aiutare, offrendosi di sposarlo, a patto che lui non cerchi mai di vederla il sabato. Poiché la ragazza è di splendido aspetto, Raimondino è lieto di accettare. Il matrimonio è assai felice e prospero: nascono numerosi figli e la prosperità della coppia sembra riversarsi anche sui possedimenti della famiglia, nei quali si accresce la produzione agricola e sorgono nuovi castelli. Tuttavia, il fratello dello sposo sparge voci malevole sulle misteriose assenze della giovane, tanto da indurre al sospetto persino Raimondino, che infrange il tabù. La ragazza, mutatasi in serpente, scompare per sempre nel regno delle acque, e ricomparirà solo di tanto in tanto come presagio di sciagure, ma i suoi figli daranno gran lustro alla stirpe da lei fondata.

La funzione di Melusina per la stirpe che la rivendica come antenata è quella di un’antica  divinità della Madre Terra, che porta la fecondità e la prosperità: il semplice suo passaggio in un bosco crea radure e campi da seminare, portando dunque la civiltà degli uomini lì dov'era il confine con il mondo delle belve e degli esseri non‑umani.

Ma la spiegazione più interessante e degna di nota del mito di Melusina è quella offerta dai medievalisti Jacques Le Goff e Emmanuel Le Roy Ladurie per i quali alla base ci sarebbero racconti mitologici greco‑romani, protagoniste dei quali sono spesso le ninfe, creature semidivine. La cristianizzazione dell'impero conduce a una demonizzazione delle divinità dell'antico Pantheon pagano, che tuttavia rimangono ben vive nell'immaginario e spesso nel culto popolare anche perché si legano a substrati cultural‑religiosi ben più antichi della colonizzazione romana, come i miti celtici. E quando, a partire dal XII secolo, le credenze popolari cominciano ad essere riprese e codificate dalla cultura letteraria, si incontrano numerosi rimaneggiamenti di tali leggende.

Il nome di Melusina è altresì associato all'opera di Paracelso, per il quale essa è analoga di Ninfe e Sirene e vive nell'”Aquaster”, il principio acqueo, il principio psichico quasi materiale legato al lunare, dal quale verrebbe anche Maria. Melusina è da un lato una visione psichica, ma è anche, tenuto conto della capacità di realizzazione immaginativa della psiche (detta "Ares" da Paracelso), una distinta entità obiettiva, come un sogno che diventi realtà per un attimo. Melusina è simbolo dell’anima che appartiene a quei fenomeni di frontiera che si verificano in particolari condizioni psichiche. Nelle circostanze di un crollo di valori, quando sul futuro si fa il buio, Melusina giunge come presenza reale e soccorrevole: l'inconscio appare come visione mentale, e Melusina emerge dal reame delle acque assumendo sembianze umane, per poi scomparire di nuovo.  Essa aiuta, ma anche inganna. E' parente dell'ingannevole Morgana (che significa "nata dal mare"), di Afrodite e di Ishtar. Ishtar era rappresentata in epoca ellenistica come sirena a due code ed era legata alle feste nuziali di Maggio. E a Maggio avvengono le nozze mistiche o chimiche degli alchimisti: e l'anima si ricongiunge con lo spirito.

 

 

Guarda, assisa, la vaga Melusina,
Tenendo il capo tra le ceree mani,
La Luna in arco da' boschi lontani
Salir vermiglia il ciel di Palestina.
Da l'alto de la torre saracina,
Ella sogna il destin de' Lusignani;
E innanzi al tristo rosseggiar de' piani,
Sente de 'l suo finir l'ora vicina.
Già, già, viscida e lunga, ella le braccia
Vede coprirsi di pallida squama,
Le braccia che fiorian sì dolcemente.
Scintilla inrigidita la sua faccia
E bilingue la sua bocca in van chiama
Poi che a 'l cuor giunge il freddo de 'l serpente.

G. D'Annunzio

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